Con ordinanza pubblicata in data 15 febbraio 2024, la Corte di Cassazione si è pronunciata nuovamente in materia di leasing traslativo, ripercorrendo logiche e principi che regolano le conseguenze in caso di inadempimento dell’utilizzatore, per poi aderire alle argomentazioni della concedente che – in veste di controricorrente assistita dal nostro Studio – ha chiesto e ottenuto la conferma integrale della impugnata sentenza della Corte d’Appello di Milano.
Nello specifico, la Suprema Corte – esclusa nella fattispecie l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 1, commi 136-140, della legge n. 124 del 2017 (che non ha effetti retroattivi e che, pertanto, “si applica alla risoluzione i cui presupposti si siano verificati dopo l’entrata in vigore della legge”) e della disciplina settoriale dell’art. 72 quater l.fall. (che si applica alla risoluzione successiva al fallimento dell’utilizzatore) – si è soffermata sulla complessiva operazione di leasing traslativo che “originatasi in seno all’autonomia privata e sussunta, attraverso l’analogia, nell’art. 1526 cod. civ. – trova la sua compiuta regolamentazione attraverso la peculiare rilevanza che viene ad assumere il comma secondo dello stesso art. 1526 cod. civ., ossia la norma che disciplina la clausola penale (c.d. clausola di confisca) e, quindi, il risarcimento del danno spettante in base ad essa al concedente in ipotesi di risoluzione del contratto di “leasing” traslativo per inadempimento dell’utilizzatore”.
La Corte ha ricordato che è “attraverso lo spettro filtrante di detta disposizione che la giurisprudenza di questa Corte ha potuto selezionare quale delle clausole standardizzate dall’autonomia privata fosse o meno meritevole di tutela alla luce della “ratio” di evitare indebite locupletazioni in capo al concedente e rispondente, quindi, ad un equilibrato assetto delle posizioni delle parti contrattuali”, precisando che è stata “reputata coerente con la previsione contenuta nel secondo comma dell’art. 1526 cod. civ. la penale inserita nel contratto di leasing traslativo prevedente l’acquisizione dei canoni riscossi con detrazione, dalle somme dovute al concedente, dell’importo ricavato dalla futura vendita del bene restituito”.
Chiaramente, la Corte ha sottolineato che il Giudice di merito è chiamato a svolgere una analisi del caso concreto, operando “una valutazione comparativa tra il vantaggio che la penale inserita nel contratto di leasing traslativo assicura al contraente adempiente e il margine di guadagno che il medesimo si riprometteva legittimamente di trarre dalla regolare esecuzione del contratto”, tenendo presente – tra l’altro – che:
i) “ove la vendita o altra allocazione sul mercato del bene concesso in leasing non avvenga, non vi può essere (come precisato da Cass. n. 15202 del 2018, citata) “in concreto una locupletazione che eluda il limite … ai vantaggi perseguiti e legittimamente conseguibili dal concedente in forza del contratto”;
ii) resta fermo il diritto dell’utilizzatore “di ripetere l’eventuale maggior valore che dalla vendita del bene (a prezzo di mercato)” ricavi il concedente, “rispetto alle utilità che [quest’ultimo] … avrebbe tratto dal contratto qualora finalizzato con il riscatto del bene”;
iii) nel caso in cui la clausola penale non faccia riferimento ad una collocazione del bene a prezzi di mercato, essa “dovrà esser letta negli stessi termini alla luce del parametro della buona fede contrattuale, ex art. 1375 cod. civ.” (così ancora Cass. n. 15202 del 2018);
iv) “Se, invece, il contratto preveda una clausola penale manifestamente eccessiva (acquisizione dei canoni riscossi e mantenimento della proprietà del bene: c.d. clausola di confisca), essa, ai sensi dell’art. 1526, secondo comma, cod. civ., andrà ridotta dal giudice, anche d’ufficio (ove, naturalmente, la penale stessa sia stata fatta oggetto di domanda ovvero dedotta in giudizio come eccezione – in senso stretto – nel rispetto delle preclusioni di rito: Cass., 12 settembre 2014, n. 19272)”.
Con riguardo alla citata “valutazione comparativa”, la Corte ha altresì ribadito l’opportunità che il Giudice di merito “ferma restando l’irripetibilità dei canoni già riscossi, provveda ad una stima del bene ai valori di mercato al momento della restituzione dello stesso (se il bene non sia stato venduto o altrimenti allocato e, dunque, in tale evenienza costituendosi a parametro i valori rispettivamente conseguiti) e, quindi, detragga il valore stimato dalle somme dovute al concedente …”.
In tale contesto, la Corte ha quindi osservato che, nella fattispecie decisa dalla Corte d’Appello di Milano:
a) “la clausola penale era stata resa oggetto di eccezione” […];
b) “la clausola penale in parola va letta dal giudice, come visto, alla luce del parametro della buona fede contrattuale di cui all’art. 1375, cod. civ., integrandone per questa via la disciplina, con la necessità di detrazione del valore di mercato residuo del bene dal complessivo vantaggio contrattuale legittimamente perseguito dal concedente, dunque correlato a quanto allo stesso dovuto in base al contratto”;
c) “nel caso di rivendita, il prezzo della stessa costituisce concretizzazione del valore da assumere a parametro”.
In ordine a questo terzo punto, la Corte ha evidenziato che “è stato ribadito e precisato che, essendo di regola necessario, nel caso in cui la ricollocazione del bene sia già avvenuta, far riferimento non al valore di mercato, bensì al prezzo effettivamente incassato, spetta per converso all’utilizzatore dedurre e dimostrare che la liquidazione sia stata effettuata dall’impresa concedente in modo non diligente o abusivamente aggravando la posizione debitoria dell’utilizzatore (Cass., 12/06/2023, n. 16632); “infatti, come del resto osservato pure dalla controricorrente, «il creditore ha interesse al miglior effettivo e immediato incasso dalla vendita, preferibile alla necessità di dover recuperare dall’utilizzatore…il residuo in sofferenza» (Cass., n. 16632 del 2023, cit., pag. 11).
In fase conclusiva, la Corte di Cassazione ha poi chiarito che “non si tratta, pertanto, di prescindere immotivatamente dalle risultanze peritali relative al maggior valore di mercato ipoteticamente ricostruito, né di addossare oneri della prova in contrasto con il principio di vicinanza, ovvero maggiore prossimità e quindi possibilità per una parte piuttosto che per l’altra di dimostrare l’incongruità del prezzo di vendita, bensì di considerare che, a fronte delle risultanze dell’alienazione, che debbono presumersi la migliore attestazione del valore ricercato, nel suo stesso interesse, dal creditore, nello specifico risulti una modalità liquidatoria non diligente o addirittura abusiva che, quale fatto che impedisce a quella presunzione di operare e fondare la pretesa creditoria nella misura corrispondente, dev’essere provato da chi lo allega, in uno, in tesi, alle risultanze peritali suddette ma non solo in base a quelle, quali smentite dalla constatata realtà delle descritte vicende venute in essere”.
L’ordinanza in commento è quindi degna di nota, oltre che per puntualità e coerenza, anche per espressività logica e immediatezza.